2020 // AD93
The Invention Of The Human
Dylan Henner
Quando ho passato questo disco a mio padre mi ha detto che è “cupo a tratti ansioso”. Io non l’ho percepito in questo modo. Certo, The Invention Of The Human ha un suono sobrio, quasi glaciale, ma quello che lo rende speciale sono gli sprazzi di luce e di umanità che si aprono tutto ad un tratto nelle canzoni. Dylan Henner ha utilizzato in tutto il disco la voce umana, manipolata in molti modi diversi: a volte è il centro della canzone, a volte è usata come campitura nello sfondo, a volte è quasi impercettibile.
Il suono di The Invention Of The Human è sicuramente minimale, ma piuttosto nel senso che Dylan Henner sceglie solo gli elementi necessari, non uno di più né uno di meno. Le canzoni giocano con l’attesa e lo spazio vuoto, prendendosi tutto il tempo necessario ad evolvere senza fretta.
La prima traccia ne è un esempio perfetto: I Was Reading The News… è una delle canzoni più originali che ho ascoltato da molto tempo a questa parte. È costruita su una voce maschile che si ripete intervallata dal silenzio, a cui poi si sommano in un crescendo nuovi campioni e note melodiche. C’è – come in tutto il disco – il tentativo di dilatare il tempo fino a che è possibile, di giocare con il senso di attesa dell’ascoltatore. Anche The Peach Tree Next Door… è costruita un crescendo emozionale e anche qui la voce umana – sotto mille strati di effetti e manipolazioni – è il perno emotivo. La canzone, però, si avvicina ad un ambient più classico, costruita su melodie e drones.
A Racoon Got Loose… è una canzone tipicamente ambient, ma perfetta nella sua essenzialità. Strati di melodie creano un tappeto sonoro leggerissimo e soffice, accompagnati da field recording del canto dei grilli e delle voci dei bambini sullo sfondo. Two Trains Came… è forse la canzone più emotiva del disco, costruita su una paziente stratificazione di melodie, cori e voci che si sommano e aumentano d’intensità.
In The Lake Was Covered… un campione vocale tagliuzzato e rimontato fa da linea ritmica della traccia. La melodia cresce fino ad andarsi a disgregare in un finale vagamente noise, ma sempre contenuto. L’ultima, We Could Hear…, è costruita su ripetizioni elettroniche e cori angelici, poi all’improvviso un cambio repentino che si apre nel finale cosmico del disco.
Il disco è immaginato come due lunghe composizioni, seguendo la struttura del vinile, ma anche nella sua forma in digitale, con la divisione in otto canzoni, non perde nulla. Ogni canzone è diversa dalle altre, mantenendo comunque un filo comune sonoro, e ognuna è a suo modo incredibilmente creativa.
Mi chiedo ancora che cosa renda questo album così speciale. Secondo me, che sia una melodia ambient o un frammento sonoro più ricercato, Dylan Henner sceglie sempre un suono che riesce a dare una specifica e precisissima emozione. Tutta l’impalcatura del disco riesce a creare un senso di velata malinconia, ma anche di dolcezza. Molto spesso l’ambient procede per campiture, disegnando e mantenendo un’atmosfera sonora nel tempo. Queste canzoni invece, piuttosto che paesaggi sono storie. C’è sempre un punto di svolta, quell’elemento improvviso che apre la canzone, quel piccolo suono perfetto. Certo, l’atmosfera di The Invention Of The Human è isolazionista, quasi glaciale, ma poi all’improvviso arriva sempre il fiotto di luce, il tocco di emozione che trasforma la canzone.
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Pubblicato il 10 Settembre 2023
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